"Mi ha guidato e fatto camminare in tenebra e non in luce" (Lamentazioni, 3, 2)

Le candele si spengono, una dopo l’altra, facendo posto all’oscurità. Un senso di caos è tra i presenti. Una candela sola rimane accesa: in essa è riposta la speranza di salvezza dell’uomo, del cristiano, del fedele. Questa è l’essenza della funzione Matutina Tenebrarum, l’Ufficio delle Tenebre, in Francia Leçons de Ténèbres, celebrata, secondo la tradizione, negli ultimi tre giorni della Settimana Santa. Per questa funzione, durante la quale venivano letti testi dalle Lamentazioni di Geremia, molti musicisti del passato hanno scritto, da Palestrina e Tallis ai francesi François Couperin e Michel-Richard De Lalande. Con la fine del Barocco, la celebrazione e la sacralità dell’evento della rivelazione vengono assorbite entrambe negli atti e nei sentimenti dell’uomo. Non v’è più posto per la riflessione sulle tenebre, se non su quelle crepuscolari e ossianiche che vengono dallo Sturm und Drang e dal primo Romanticismo e che nascono e vivono nell’orizzonte umano. Ritornare alle Leçons de Ténèbres vuol dire dunque ripensare l’oscurità come qualcosa di dato, di esterno e di assolutamente invalicabile per la coscienza dell’uomo. E’ a questo tipo di visione, pensiamo, che si richiama Angelo Gilardino quando scrive il suo primo concerto per chitarra e orchestra1. In esso non c’è nessun riferimento diretto alle opere del passato. Il riferimento è, al contrario, all’evento della morte per eccellenza, la morte di Dio, che simbolicamente significa il momento più buio nella parabola della religiosità.

 

"Si è allontanata dalla pace l’anima mia" (Lamentazioni, 3, 17)

Da queste stesse pagine2 avevamo messo in luce come la musica di Gilardino si fosse incentrata esclusivamente sulla chitarra per una precisa esigenza poetica.

Ora, di fronte all’evoluzione del compositore ormai giunto al quarto concerto per chitarra e orchestra3, la nostra tesi sembra contraddittoria.

E’ importante però non fermarsi a questa indiscutibile constatazione, ma indagare per quali ragioni il compositore si sia indirizzato verso un organico extrachitarristico, o, più propriamente, iperchitarristico.

La prima ragione è di carattere espressivo. Dopo aver scritto un concerto per chitarra e orchestra di chitarre, Gilardino si avvicina alle potenzialità dell’orchestra come naturale espansione delle possibilità della chitarra. Ciò avviene attraverso nuove soluzioni compositive, sia nel trattamento dello strumento solista che dell’orchestra, fondate sul principio per cui la scrittura chitarristica è l’idioma di riferimento per la scrittura orchestrale. Ciò non vuol dire che l’orchestra sia trattata in modo tale da ottenere effetti chitarristici; al contrario, essa assume l’intima connotazione della scrittura chitarristica, dall’armonia al contrappunto, dalla forma alla struttura diastematica.

In secondo luogo c’è una ragione filosofica. La chitarra, lo abbiamo detto, rappresenta per il compositore la possibilità di evocare un mondo fatto di ombre, a cui la sua poetica si ispira4. La premessa teorica che fonda questa poetica consiste nell’eliminare ogni tendenza all’estetizzazione. Non possiamo riferirci propriamente a una visione estetica del compositore, soprattutto se pensiamo al significato etimologico di questo termine (aistesis vuol dire infatti sensazione). Non c’è sensibilità nella musica di Gilardino, ed essa non può essere considerata una musica del "senso"; c’è però un’interazione con la materia, che non è trasfigurata (attraverso un’elaborazione compositiva) in sensazione, bensì trascesa attraverso un salto, un ribaltamento della stessa in incorporeo. E’ per questa profonda ragione che la musica di Gilardino è una musica di ombre, di evocazione, di allusione.

In questo sostrato filosofico alberga e vive il sentimento dominante della musica di Gilardino, quello della melancholia. A questo termine sarebbe opportuno dedicare un discorso a se stante. Occorre qui almeno ricordare il senso di impossibilità e di assenza che la melancholia evoca: come l’angelo nell’incisione di Dürer, che pur avendo le ali appare gravato e terrenamente avvinto dalla sua corporeità, così il suono della chitarra restituisce una dimensione di incorporeità attraverso qualcosa che corporeo è, cioè il suono, un suono che immediatamente, dopo aver preso vita, scompare, lasciando un senso di profonda perdita.

"E’ finita la gioia del nostro cuore: s’è volta in lutto la nostra danza" (Lamentazioni, 5, 15)

E’ questa ambiguità, vivere l’incorporeità attraverso la corporeità, che spinge Gilardino a fare questo passo verso il non chitarristico, e a vivere l’estraneità dell’organico orchestrale. Estraneità che, come si accennava, viene pensata in termini chitarristici, a partire dal mondo ombroso del suono della chitarra (non a caso l’ultimo lavoro del compositore si intitola La casa delle ombre).

L’orchestra dunque costituisce il prisma delle sonorità della chitarra. Essa non viene considerata nelle sue potenzialità espressive, i cui limiti sono stati estesi dall’evoluzione della musica del Novecento, se non in rapporto alle esigenze di rifrazione del suono chitarristico. In questa scelta troviamo il primo elemento di originalità del compositore rispetto al tradizionale trattamento. Il ruolo che Gilardino affida alla chitarra è unico nella letteratura chitarristica. La chitarra ha lunghi momenti in cui suona da sola e nel complesso delle 287 battute del primo movimento solo in 79 si assiste al suo silenzio. La scelta di far esporre alla chitarra i temi in "solo" — cosa che vediamo fare anche da Villa Lobos (il II tema del I movimento, ad esempio) — è dettata dal fatto che essi sono intrinsecamente legati alla chitarra, essendone la propagazione più pura ed essenziale, il punto d’equilibrio fra la materia (il suono) e la forma.

Questa centralità della chitarra si osserva dal principio, quando nell’esposizione del primo tema la breve introduzione (Andante calmo, quasi Adagio) affidata alle viole (es. 1.1) e al flauto (es. 1.2) si svela gemmata dalla scomposizione del primo tema esposto subito dopo dalla chitarra (es. 1.3).

Ulteriore elemento di differenziazione tra la musica di Gilardino e gli esempi della letteratura a cui ci riferiamo, sta nella preoccupazione di rendere intelligibile la tessitura chitarristica (cioè anche chiaramente percepibile dal punto di vista sonoro), il che fa prediligere al compositore l’uso di lunghi episodi di "solo" chitarristico per le sezioni in cui sono enunciati e ripresi i temi del concerto e l’induce a riservare le parti concertate allo sviluppo.

A partire dall’esposizione del secondo tema incontriamo due elementi compositivi molto importanti e simbolicamente rappresentativi della poetica dell’autore: la compresenza di un ritmo puntato, ovvero l’elemento di gravità, e di un elemento di fluidità, equoreo, che prende vita attraverso la terzina di crome. Entrambi gli elementi, ora affiancati nel secondo tema (mis. 75-82), ora smembrati e affidati con differenti funzioni alla chitarra o all’orchestra, definiscono insieme alla terzina, più perentoria, dell’arpeggio del primo tema e alla melodia, il nucleo essenziale del materiale utilizzato dal compositore per sviluppare questo primo movimento, classico nella sua forma, con due temi differenti nel carattere, uno sviluppo articolato affidato a dialoghi orchestrali ricchi di contrappunto e a una ripresa dove i due temi sono rielaborati attraverso un contrappunto distribuito tra orchestra e solista.

Di questi processi trasmutativi troviamo traccia, ancora, nel dialogo fra oboe e chitarra (mis. 211-218), nel quale la meccanica reiterazione della parte chitarristica attribuisce un significato di disperata solitudine al canto, oppure nelle accumulazioni di energia (mis. 228-242), dove l’ossessività della pulsazione ritmica viene spinta all’estremo limite di sostenibilità, raggiunto il quale si dissolve di colpo, proprio come un fantasma, introducendo in modo netto la ripresa del I tema.

Nel movimento lento, dove convivono percezione allucinatoria e forza evocativa, domina una fissità che ricorda il secondo movimento del Concerto in sol di Ravel, con la differenza che la musica di Gilardino è circondata dall’oscurità. Anche in questo contesto compositivo gli elementi essenziali hanno a che fare con la terra e con l’acqua. Gli accordi arpeggiati omoritmici fanno da sfondo alla melodia e ne costituiscono una rifrazione acquatica. La struttura diastematica mutuata dalla melodia del solo chitarristico regola la seconda sezione — Un poco più mosso — la cui costruzione è sorretta da un fluire di arpeggi (es. 2.1, es. 2.2) che altro non sono se non l’espansione cinetica degli accordi dell’incipit e di contrappunti affidati ai singoli strumenti dell’orchestra.

Il terzo e ultimo movimento è costruttivamente il più nuovo e pieno di forza, una forza che acquista grazie al suo rigoroso sviluppo formale. In esso, la luce (o per meglio dire, l’ombra) chitarristica viene scomposta attraverso il prisma dell’orchestra, non solo in senso timbrico, come avveniva nel primo movimento, ma anche formale. Difatti, ogni elemento del primo solo della chitarra fa da materiale per i contrappunti severi e netti affidati all’orchestra, la cui meccanicità è equilibrata da un senso di profondità spaziale che genera smarrimento, quasi un’alterazione della percezione, uno stato di trance o esaltazione in cui il logos prende il sopravvento sulla coscienza, in una sorta di glossolalia musicale i cui costituenti risultano essere un tutto organico.

Tali costituenti sono riducibili a poche cellule, la cui spiccata definizione ritmica ne fa degli elementi fortemente espressivi anche in senso coloristico grazie alle mescolanze ottenute tramite l’elaborazione contrappuntistica.

Se infatti nel "solo" della chitarra all’inizio del movimento troviamo questi elementi disposti in senso lineare per giustapposizione - in particolare, l’associazione del ritmo puntato con quello omoritmico in crome (A) o in quartina di semicrome (B1) (es. 3.1) e le espansioni delle cellule (B2) che generano a loro volta nuovi elementi (C), (es. 3.2) — già dal primo intervento dell’orchestra il trattamento del materiale, prima per contrasti timbrici (ogni singolo elemento viene affidato a uno strumento diverso, a partire dai violini - es. 3.3), poi contrappuntistico, dà vita a un nuovo magma sonoro sul solido fluire della pulsazione ritmica (es. 3.4).

Nel prosieguo del movimento assistiamo infine a una sorta di ricapitolazione, dove il compositore rielabora elementi e temi del primo tempo, seguendo anche qui la tecnica di giustapposizione che regola perfettamente tutta l’architettura di questo finale.

"Perché si lamenta l’uomo, l’uomo che vive malgrado i suoi peccati?" (Lamentazioni, 3, 39)

Risulta evidente la potenza espressiva di questa costruzione che, attraverso i mutamenti degli elementi semplici, consegna l’ascoltatore a una condizione di inquietudine profonda. Quest’ultima non è il semplice risultato della forte drammatizzazione, ma è strettamente connessa con l’idea, cara al compositore, dell’impossibilità di riferirsi al mondo in termini immediati. Tutto viene così percepito attraverso uno stato di allucinazione, di "divina mania" (su cui grava ancor più pesantemente il fluire regolare del tempo), che si rispecchia sulla realtà percepita ma che trae origine nella dimensione interiore dell’uomo. Questo è il peccato, l’irrimediabile scissione dovuta all’abbandono di un’unità che simbolicamente il sopraggiungere delle tenebre sancisce, ciò che l’uomo continua a reiterare e di cui le Leçons de Ténèbres sono una rituale rammemorazione.

"Non ha meritato la Luce, ha meritato la pace" rispose Levi con voce mesta.5

Note

1 Pubblicato dalla Bèrben nel 1998, ma composto dall’autore nel 1996.

2 Cfr. Le ombre di un’ombra, in "Guitart", n.° IV, anno I, pag. 43.

3 Dopo il concerto per chitarra sola, Gilardino ha scritto un concerto per mandolino chitarra e orchestra, un concerto per quattro chitarre e orchestra e un concerto per flauto chitarra e orchestra d’archi.

4 "Cerco di rendere presenti le ombre della memoria. La chitarra è la voce ideale, per un mondo di ombre, non di corpi o di figure". Intervista ad Angelo Gilardino di Enrico De Maria, pubblicata nel volume unico La scuola chitarristica vercellese, Vercelli, 1990.

5 Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita, Newton Compton,Roma 1990, cap. XXIX, p. 319.